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NOTTURNO CON STREGA

 

 

 

Non appena la porta della vecchia casa isolata si aprì, lasciando che una sagoma scura si stagliasse per un istante sulla soglia, i tre uomini in cammino si ritrassero frettolosamente dietro un grande olmo. Sarebbe stato molto più comodo arrivare direttamente con l’auto d’ordinanza davanti alla porta, piuttosto che lasciarla in mezzo ad una macchia di salici, un centinaio di metri più indietro; ma le condizioni del viottolo erano tali da sconsigliare un avvicinamento su quattro ruote.

La luna crescente era poco più di uno scarabocchio nel cielo, un segno giallastro incurante delle nubi sfilacciate che gli passavano davanti nel vano tentativo di cancellarlo. L’aria di fine aprile era pungente, ma non fastidiosa. Ovunque, o quasi, la campagna circostante stava immersa nell’inquieto pantano del sonno.

“Eccola, è lei! E sta trascinando qualcosa!”

Il tono di Giuseppe Lotito era animato da un’evidente foga repressa, e il maresciallo Moretti dovette intimargli con un gesto brusco di tacere, o di parlare sottovoce.

“Sì, scusa, Moren... maresciallo.”

Non era certo il momento di badare al protocollo. Però, nonostante lo stato d’animo, Giuseppe preferiva comunque rivolgersi a Moreno, vecchio compagno di scuola, con la qualifica che gli spettava, se si trovava in presenza di un suo sottoposto. Il sottoposto in questione era l’appuntato Marcello Zordan, recente acquisto della Benemerita, impegnato nella sua prima operazione straordinaria. Era molto compiaciuto del fatto di essere stato scelto per fiancheggiare il maresciallo in quella missione; poteva rivelarsi un’occasione d’oro per mettersi in luce, e magari spianarsi la strada verso una promettente carriera. Non poteva proprio immaginare che gli eventi di quella notte gli avrebbero, definitivamente, guastato la vita.

Giuseppe continuava a fissare la figura della donna, intabarrata in un mantello che le svolazzava ai fianchi come due lacere ali di pipistrello. Dopo essersi richiusa la porta alle spalle, quella sagoma nera aveva preso a camminare in direzione dell’olmo, presumibilmente diretta allo stagno. E trascinava veramente qualcosa dietro sé. Un sacco. Lo sfregolìo della iuta contro terra e ghiaia si faceva via via più distinto, e gli uomini in attesa si scoprirono a rabbrividire. Solo Giuseppe era sicuro di conoscerne il contenuto. Gli altri due non avevano ancora deciso se sperare che avesse ragione o meno.

Giunta a pochi metri dall’olmo, la donna si fermò.

Giuseppe non perse tempo a chiedersi se fossero stati visti, uditi, o più verosimilmente percepiti. Contravvenendo agli accordi presi, non attese neppure il segnale del maresciallo. Mosse un passo sicuro uscendo dal nascondiglio, e si portò al centro del sentiero. Gli altri due, volenti o nolenti, lo imitarono.

Adua non disse una parola. Rimase alcuni istanti ad osservare i tre uomini (due dei quali in divisa) che le sbarravano la strada, quindi mollò la presa e lasciò che il sacco dall’imboccatura chiusa con un cordoncino si rovesciasse goffamente su un fianco. Ne scaturì una sorta di gemito, accompagnato – pure alla luce fioca della luna – da un’impressione di movimento. C’era qualcosa, in quel sacco. Qualcosa di vivo.

Difficilmente il maresciallo Moretti si sarebbe lasciato coinvolgere in prima persona in un’iniziativa discutibile e per certi versi irregolare come quella, data l’esiguità di prove in suo possesso. Ma i fattori che l’avevano portato a quel punto erano essenzialmente due: Giuseppe era un amico d’infanzia, e se sosteneva che il figlioletto Antonio, otto anni, era finito nelle mani di quella donna, non si poteva proprio restare con le mani in mano, prove o non prove. Che il bambino non fosse rintracciabile dalla mattinata, del resto, era un fatto. Sì, era un bambino autonomo, e non era la prima volta che dopo la scuola andava a casa di amici, o a pescare, o a giocare chissà dove, anche senza avvisare; però non era mai rincasato più tardi delle quattro, quattro e mezza del pomeriggio. Nessuno dei suoi amichetti, poi, pareva saperne nulla.

Da troppi anni, inoltre, le voci circa un coinvolgimento di Adua nella sparizione di alcuni ragazzini di Portomaggiore e dintorni incrinava la tranquillità del paese. Il primo caso risaliva al 1982 (giusto l’anno seguente l’arrivo di quella donna); poi era accaduto di nuovo undici anni dopo, nel ’93, e poi ancora nel ’99. Non si era più avuta traccia di nessuno. Neppure un’unghia. Che fossero finiti annegati, o seppelliti, o addirittura mangiati... Se n’erano sentite davvero di tutti i colori.

Ora, dopo cinque anni, Antonio rischiava di diventare la quarta vittima.

“I bambini sono spariti sempre il 30 di aprile, Moreno!” gli aveva raccontato con veemenza Giuseppe un paio d’ore prima, al comando. “È la notte di Valpurga, lo sai bene: una notte importante, per le streghe! E quell’Adua è una strega, lo dicono tutti, che tu ci creda o no!”

In più, c’era un dettaglio che lasciava perplessi: le sparizioni (termine molto generico per non parlare di rapimenti, o di omicidi) erano avvenute sempre e soltanto quando la notte di Valpurga cadeva di venerdì. Come nel 2004. Difficile che fosse solo un caso. Una visita a questa signora in odore di stregoneria che viveva tutta sola in mezzo ai campi era quindi assolutamente doverosa. Anche perchè probabilmente avrebbe avuto bisogno di difesa, in caso Giuseppe si fosse abbandonato a qualche intemperanza.

“Signora Adua Borghi, buonasera!” esordì il maresciallo. “Possiamo sapere dove sta andando, cortesemente?”

Adua lo guardò dritto negli occhi, senza scomporsi, quasi si fosse aspettata di fare quell’incontro. L’anagrafe informava che la sua età era prossima alla sessantina, anche se il suo viso ne suggeriva molti di meno. Merito del lavoro e dell’aria buona, dicevano alcuni, senza troppa convinzione; merito dei suoi incantesimi, sostenevano altri, decisamente in maggioranza. A sollevare il maresciallo dall’impegno di dover sostenere quello sguardo ardente fu Giuseppe, che apriva e richiudeva i pugni con preoccupante insistenza.

“Se dentro quel sacco c’è mio figlio, giuro che ti spello viva!”

Avvenne tutto nel giro di una ventina di secondi, anche se la memoria sarebbe sempre tornata a quella notte maledetta riproponendo ogni singolo movimento con l’esasperante lentezza dovuta allo shock.

Giuseppe avanzò fino al sacco, e la donna si tirò indietro. Anche Moretti si portò in avanti, seguito da un intimorito Zordan che grattava nervosamente con le unghie la canna della mitraglietta appesa al collo. Quindi Giuseppe si chinò sul sacco, liberandone furiosamente l’imboccatura. Adua si lasciò sfuggire un risolino, continuando a camminare a ritroso lungo il sentiero.

Il maresciallo sgranò gli occhi quando dall’oscura bocca di iuta vide affacciarsi un grosso mastino ringhiante. Senza esitazioni, la bestia si avventò con un balzo su Giuseppe, che non potè evitare di ricadere sulla schiena sotto l’impeto di quell’assalto. Moretti imprecò a gran voce, o forse immaginò solo di farlo. Il terrore lo aveva quasi paralizzato, e ogni percezione sembrava venisse filtrata da un vetro spesso e scuro prima di raggiungere i suoi sensi.

Il manto del cane appariva deturpato da lacerazioni e bruciature, e dalle fauci spalancate colava copiosa bava mista a sangue. Un ringhio sordo, famelico, erompeva dalla gola possente, mentre nella penombra rilucevano le candide zanne dirette alla gola del pover uomo a terra.

Il maresciallo indirizzò un rapido sguardo all’appuntato, ed ebbe quasi l’assurda impressione che questi stesse sorridendo. Da lui non avrebbe ricevuto alcun aiuto. Allora la mano andò meccanicamente alla fondina, e l’istante successivo la Beretta calibro nove era tutt’uno con le sue dita serrate attorno al calcio. Gli occhi tornarono a posarsi sulla bestia rabbiosa, sul quel muso lordo affondato fra il capo e una spalla di Giuseppe... che stava sorridendo, pure lui, con le lacrime agli occhi! Che razza di maleficio era quello?!

Fu una scarica di adrenalina a dettare le sue azioni. Sfogandosi in un urlo animale, Moretti sferrò un calcio poderoso contro un fianco della belva, mandandola a rotolare uggiolando sul ciglio della strada. Quindi, prima che potesse rialzarsi, sparò. Uno, due, tre, cinque, sette colpi fiammeggianti. Le pallottole affondarono nel costato, nella gola, nel cranio dell’animale, sollevando spruzzi rossi che in breve ne tinsero l’intera malconcia pelliccia.

Subito tornò la quiete. Anche se durò soltanto un secondo.

All’unisono, Giuseppe Lotito e Marcello Zordan presero ad urlare. Le grida del primo erano intrise di dolore, di stupore, di disperazione; quelle del secondo erano più che altro gli strilli di un ragazzo, troppo spaventato per poter manifestare in maniera più razionale le sue emozioni. Per Moretti, fu come riemergere alla superficie di un acquitrino dopo essere rimasto ad annaspare nelle sue profondità. Tutto ritornò limpido, e la luna improvvisamente sgombra dalle nubi gli facilitò malignamente il compito di guardare, di capire.

Adua era davvero una strega, sì, adesso anche lui ne era convinto. Lo aveva costretto - giocando con la sua mente come una bambina farebbe con una bambola di pezza – a vedere ciò che lei aveva deciso di mostrargli. E quando Antonio, finalmente libero, era uscito dal sacco per lanciarsi incontro a suo padre, per abbracciarlo, per baciarlo... lui solo aveva visto tutt’altro!

Lasciò cadere la pistola, si coprì gli occhi con le mani, e le sue urla si confusero con quelle degli altri due uomini. Nello stesso momento Adua, tornata a richiudersi in casa, stava ridendo, in un perverso contrappunto alla loro sofferenza, soddisfatta per essere riuscita ancora una volta ad offrire il sacrificio del venerdì di Valpurga ai suoi inconoscibili Dei dell’oscurità.

 

 

 


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